Silvia Romano non è più una prigioniera di chi ha usato la sua libertà come merce di scambio per avere soldi così da finanziare le proprie azioni jihadiste.
Silvia è a casa e sta bene. E poco o nulla importano le sue scelte personali, in primis la conversione all’Islam. Magari un giorno, a mente fredda, la ragazza – 23 anni, non dimentichiamo la sua età – scriverà un libro e ci racconterà la sua prigionia, durata 18 mesi tra il Kenya e la Somalia.
Innanzitutto, sono stati scioccanti, spregevoli e sessisti molti commenti che ho letto contro Silvia. Alla faccia dell’hashtag #TheNewHumanity, lanciato da Lavazza come speranza per il genere umano post coronavirus. Mi sono imbattuto in post così vergognosi da avere sfoltito un bel po’ la lista dei miei contatti su Facebook. E certa gente si merita davvero una denuncia e un DASPO così da non potere usare i social media, usati come arma per offendere, tra l’altro con un’altra caratteristica che mi fa imbestialire: la disinformazione. Ancora oggi, ad esempio, c’è chi scrive che Silvia sia incinta e che abbia sposato un suo carceriere e che presto tornerà in Africa per stare con lui e godersi i soldi del riscatto. Vergognoso.
Premesso ciò, però, bisogna fare i conti con alcuni aspetti che esulano da Silvia. Sì, perché la cooperante è una vittima.
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